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Nel caso di DPI inadeguati è responsabile il datore di lavoro anche quando si è avvalso di un professionista tecnico esterno?

Cassazione Penale, sentenza n. 15406 del 15 aprile 2024.

MASSIMA:

La nomina del RSPP non esclude automaticamente la responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio dovuto all’inadeguatezza dei dispositivi di protezione individuale.”.

CONCETTO TRATTATO:

Il datore di lavoro ha il dovere di verificare l’attività del RSPP, anche se è un professionista esterno.

COMMENTO:

Si verificava un incidente sul lavoro all’interno di uno stabilimento produttivo di manufatti in alluminio; in particolare, mentre un operaio era intento a raccogliere le impurità dell’alluminio in fusione (scorificazione) all’interno di un forno che era aperto adoperando un mestolo metallico, la immersione del mestolo nell’alluminio fuso a 700 gradi produceva una violenta reazione chimica con conseguente proiezione di schizzi di metallo fuso sul viso e sul corpo dell’uomo e causazione di ustioni di secondo grado alle mani e di ustioni dì primo grado al volto, all’addome ed agli arti inferiori, risultando, infine, ustionato l’8% del corpo del lavoratore, con malattia durata 55 giorni.

Le dotazioni lavorative di sicurezza fornite non erano state ritenute adeguate, indossando guanti in pelle con resistenza meccanica ma non al calore ed alti soltanto sino al polso, grembiule e pantaloni della tuta in tessuto di cotone, anziché indumenti “alluminizzati”, ed occhiali da lavoro, ma non già protezioni del viso e del capo quale una visiera con calotta, e, conseguentemente, si riconosceva la responsabilità dell’imputato, in qualità di datore di lavoro e legale rappresentante, in relazione alla violazione dell’art. 77, comma 3, del d. Igs. 9 aprile 2008, n. 81, secondo cui il datore di lavoro deve fornire al lavoratore i dispositivi di protezione individuale (DPI) conformi ai requisiti di cui all’art. 76 del d.P.R. n. 81 del 2008, ossia, tra l’altro, adeguati ai rischi da prevenire e alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro, mentre nel caso di specie ciò non era avvenuto, non essendovi al momento dell’infortunio indumenti protettivi adeguati in azienda.

Dai primi gradi di giudizio era stata ritenuta interruttiva del nesso causale la non idonea preparazione del mestolo, che non era stato sufficientemente scaldato prima di essere immerso nel metallo fuso, onde eliminare ogni traccia di umidità dallo strumento, da parte del lavoratore infortunato, poiché la eventuale negligenza del lavoratore non avrebbe escluso la responsabilità del datore di lavoro che non avesse posto in essere tutte le cautele necessarie a “governare” il rischio prodotto da una determinata lavorazione e anche dalla eventuale imprudenza del lavoratore.

Il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione sostenendo la mancanza di prova che lo stesso conoscesse o potesse conoscere l’inadeguatezza dei dispositivi rispetto al rischio di schizzi di alluminio bollente: infatti si era avvalso, pochi mesi prima dell’infortunio, di un ingegnere esterno all’azienda per aggiornare il documento di valutazione dei rischi, dal quale era emerso che i dispositivi di protezione individuale forniti sarebbero risultati idonei rispetto al rischio di eventuale contatto con il metallo fuso; inoltre da anni, in azienda, si operava con quel tipo di protezioni senza che si fosse mai verificato alcun infortunio.

Il datore di lavoro non avrebbe avuto alcuna colpa in quanto aveva fatto affidamento sulle indicazioni tecniche del documento di valutazione dei rischi recentemente aggiornato e sull’esperienza, protratta negli anni, di lavoro in azienda con quel tipo di protezioni.

La Cassazione, con sentenza n. 15406 depositata il 15 aprile 2024, rigettava il ricorso.

Secondo la Corte, il datore di lavoro ha il dovere di rilevare eventuali rischi non evidenziati dal responsabile dei servizio di prevenzione e protezione ovvero l’adeguatezza della modalità di prevenzione dei rischi pur in effetti correttamente individuati; si può ritenere con la ordinaria diligenza sulla base di competenze tecniche di diffusa conoscenza ovvero di regole di comune esperienza che, nel caso di specie, il rischio (correttamente individuato) di ustione da metallo fuso non è contenibile mediante materiali quali pelle o cotone ma tramite indumento alluminizzato che coprano tutte le parti del corpo esposte ai rischio.

Così la Corte: “Affinché possa escludersi la colpa soggettiva del datore di lavoro che si sia avvalso di “saperi esperti” per la individuazione del rischio e delle modalità per prevenirlo, è necessario che l’informazione fornita dal tecnico non sia verificabile dal datore di lavoro tramite le proprie competenze e la ordinaria diligenza”.

Quanto sopra non può ritenersi nel caso di specie, in quanto i guanti in pelle, peraltro alti solo sino al polso, grembiule e pantaloni della tuta in cotone, anziché indumenti “alluminizzati”, e occhiali da lavoro senza calotta che proteggessero il viso ed il capo non erano, con intuitiva evidenza, idonei a riparare il corpo da pericolosi schizzi di alluminio fuso a 700 gradi.

Se così non fosse, si rischierebbe di giungere ad ammettere una possibilità concreta di traslazione di responsabilità datoriale in materia di sicurezza sul lavoro, che e invece estranea al sistema della sicurezza nei luoghi di lavoro (art. 17 del d. Igs. n. 81 del 2008).

Pertanto la Corte rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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