Cassazione Penale, sentenza n. 11598 del 20 marzo 2024.
MASSIMA:
“Ai fini della configurazione del reato di scarico di acque reflue senza autorizzazione ai sensi dell’art. 137, comma 1, del D.Lgs. n. 152/2006, fattispecie che punisce ogni indebita immissione di acque reflue nel suolo, nel sottosuolo e nella rete fognaria, sono scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche da eliminare, mediante scarico in corpo recettore, in pubblica fognatura.”.
CONCETTO TRATTATO:
La Cassazione ha stabilito che sono scarichi industriali anche quelli provenienti da aziende dove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi.
COMMENTO:
Con sentenza del Tribunale un soggetto veniva condannato alla pena di euro tremila di ammenda per violazione dell’articolo 137, comma 1, D.Lgs. 152/2006.
L’art. 137, comma 1, del D.Lgs. 152/2006 stabilisce che chiunque apra o comunque effettui nuovi scarichi di acque reflue industriali, senza autorizzazione, oppure continui ad effettuare o mantenere detti scarichi dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata, e’ punito con l’arresto da due mesi a due anni o con l’ammenda da millecinquecento euro a diecimila euro.
L’imputato proponeva ricorso per cassazione, lamentando violazione di legge e contraddittorietà della motivazione rispetto alle testimonianze assunte in dibattimento, da cui sarebbe emerso che, quella secondo cui l’imputato scaricava saponi in pubblica fognatura, era solo una supposizione degli operanti, laddove era ben possibile che il tombino di scarico confluisse presso un punto di raccolta.
La Cassazione, con sentenza n. 11598 depositata il 20 marzo 2024, dichiarava inammissibile il ricorso.
Ed infatti, a fronte dell’incontestata natura “industriale” dell’attività svolta dall’imputato, non vi era dubbio che detta attività avesse prodotto dei reflui da eliminare, mediante scarico in corpo recettore, in pubblica fognatura, ovvero in “punto di raccolta”.
Secondo la Corte “sono scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche”.
La Corte, per argomentare meglio la propria decisione, analizzava i due possibili casi in cui la condotta dell’imputato sarebbe stata comunque da censurare penalmente.
In una prima ipotesi, i reflui potevano confluire in un c.d. “pozzo a perdere”, nel qual caso si sarebbe comunque configurata l’ipotesi del reato contestato, dato che la fattispecie in questione avrebbe punito ogni indebita immissione di acque reflue nel suolo, nel sottosuolo e nella rete fognaria, per cui il motivo di ricorso sarebbe stato manifestamente infondato.
Nell’altra ipotesi, ovvero quella in cui si fosse verificata una raccolta con successivo prelievo (come nel caso delle c.d. “fosse Imhoff”), non si sarebbe più trattato di una ipotesi di scarico senza autorizzazione, bensì di gestione di rifiuti liquidi senza autorizzazione: infatti, “i reflui stoccati in attesa di successivo smaltimento, come i liquami contenuti in pozzi neri, fosse Imhoff e bagni mobili, sono da considerarsi rifiuti liquidi di acque reflue, soggetti, pertanto, alla disciplina della parte quarta del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e non a quella delle acque di scarico, che riguarda solo i liquidi direttamente immessi nel suolo, nel sottosuolo o nella rete fognaria“.
Ed infatti, lo scarico è tale quando avviene tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile di collettamento, intendendosi, per condotta, non per forza tubazioni o altre specifiche attrezzature, essendo, invece, necessario e sufficiente un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore.
In tutti gli altri casi – nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore – si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti, di cui alla Parte IV del D.Lgs. 152/2006, visto che, in assenza di stabile collegamento tra il luogo di produzione del refluo e quello di rilascio nel corpo recettore, il refluo stesso non può essere qualificato come “acqua di scarico”, ma come rifiuto.
Conseguentemente, la violazione contestata non sarebbe più stata quella di cui all’articolo 137, comma 1, D.Lgs. 152/2006, bensì quella dell’articolo 256, comma 1, del medesimo decreto, trattandosi di smaltimento illecito di rifiuti.
In ogni caso il ricorrente non censurava l’errata qualificazione giuridica della contestazione, e si limitava a generiche ed “esplorative” contestazioni, che rendevano il motivo di ricorso inammissibile per genericità.
Per questi motivi la Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.