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20230

Differenze tra «mobbing» e «straining».

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, ordinanza n. 28923 del 18 ottobre 2023.

MASSIMA:

“In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi”.

CONCETTO TRATTATO:

Stress nel luogo di lavoro e dimissioni della lavoratrice: non si configura mobbing per difetto di intento persecutorio ma va risarcito il danno alla salute .

COMMENTO:

Con questa ordinanza la Cassazione stabilisce il principio di diritto secondo cui lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni; essa, tuttavia, è sempre riconducibile all’articolo 2087 c.c., sicché se viene accertato lo straining, e non il mobbing, la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta. Bisogna, dunque, assegnare valore dirimente al rilievo dell’ambiente lavorativo stressogeno quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche.

Pertanto, anche laddove non sia configurabile una condotta di mobbing, viola la tutela delle condizioni di lavoro il datore che consenta il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti tali da poter indurre disagi o stress.

Venendo al caso di specie, la Corte d’Appello aveva escluso che fosse configurabile la fattispecie del mobbing, per difetto di prova di un disegno persecutorio nei confronti della lavoratrice, ritenendo, invece, che la superiore gerarchica avesse posto in essere un progressivo e generalizzato svuotamento delle mansioni dei colleghi, non solo quindi in danno della attuale ricorrente, ma anche di altri dipendenti che, al pari della ricorrente, avevano rassegnato le dimissioni ritenendo “intollerabili le condizioni lavorative e l’ambiente creato dalla superiore”. Negava tuttavia il richiesto risarcimento del danno da perdita di chance ed il risarcimento del danno esistenziale preteso dalla lavoratrice, rilevando la mancanza di indicazioni circa le opportunità perdute e di specificazioni sul come i fatti in oggetto avessero inciso sulle abitudini di vita, le aspirazioni, le dinamiche familiari della stessa dipendente.

La lavoratrice ricorreva allora in Cassazione, sostenendo come il progressivo demansionamento della stessa facesse parte di una più ampia strategia aziendale volta all’allontanamento della dipendente, divenuta in modo specifico destinataria di “aggressioni verbali, urla, violazione della privacy (mediante lettura della posta…) e privazioni di strumenti di lavoro (pc e telefono aziendale).
Inoltre, anche se fosse stato escluso l’elemento persecutorio necessario per poter configurare una condotta mobbizzante, seconda la ricorrente il giudice di merito avrebbe dovuto ritenere integrata la violazione dell’art. 2087 c.c. per la antigiuridicità, la dannosità e la vessatorietà dei comportamenti datoriali causativi di conseguenze devastanti sulla salute psico-fisica della ricorrente. e sulla sua condizione patrimoniale e lavorativa e, conseguentemente, aveva diritto al risarcimento del danno esistenziale e da perdita di chance.

La Cassazione, con ordinanza n. 28923 depositata il 18 ottobre 2023, rigettava il ricorso.

In merito al primo motivo, la Corte chiariva le differenze tra le condotte vessatorie nei confronti dei lavoratori: è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima, a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime; è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie.

Ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

Secondo la Corte, la ricorrente non aveva provato in corso di causa un disegno persecutorio ai danni della stessa, per cui questo motivo veniva ritenuto inammissibile.

Per quanto riguarda il secondo motivo, la Corte precisava che, in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi.

Nel caso di specie, il comportamento tenuto dall’azienda nei confronti della lavoratrice (di cui il demansionamento costituiva solo un aspetto), pur non costituendo mobbing, aveva, però, determinato un danno alla salute ed all’integrità psicofisica della stessa ed il risarcimento del danno alla salute era stato riconosciuto quale conseguenza della complessiva condotta datoriale, giudicata illegittima per violazione dell’art. 2087 c.c..; tuttavia, non le veniva riconosciuto alcun danno da perdita di chance per la genericità delle allegazioni della lavoratrice, consistenti in “mere illazioni e/o supposizioni, del tutto astratte” e veniva altresì negato il risarcimento del danno esistenziale mancando qualsiasi indicazione circa le opportunità perdute dalla lavoratrice ed anche specificazioni sul se e come avesse dovuto modificare le sue abitudini di vita, le sue aspirazioni, su come sono cambiate le dinamiche familiari.

Pertanto, la Corte rigettava il ricorso e condannava la ricorrente alla rifusione delle spese processuali.

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