Le sentenze più interessanti del mese di Aprile: analisi e commento.
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Omesso aggiornamento del DVR a seguito di infortunio di un lavoratore.
Cassazione Penale, Sentenza n. 13199 del 7 aprile 2022.
MASSIMA:
“Ai sensi dell’art. 18, comma primo, lett. d), D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, infatti, il datore di lavoro deve fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi di cui all’art. 28 dello stesso decreto”.
CONCETTO TRATTATO:
In materia di sicurezza sul lavoro, un Amministratore Delegato è stato condannato perché non ha aggiornato il DVR dopo analoghi sinistri già accaduti ad alcuni lavoratori.
COMMENTO:
Con sentenza di una Corte di appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, veniva ridotta a due mesi di reclusione la pena, già condizionalmente sospesa, inflitta ad un soggetto in relazione al reato di lesioni personali colpose perché, quale vicepresidente ed amministratore delegato della società datrice di lavoro di una dipendente, assunta con mansioni di addetta alla ristorazione all’interno di un autogrill, cagionava alla predetta alcune lesioni da cui derivava una malattia nel corpo della durata di circa 156 giorni (frattura dello scafoide carpale del polso sinistro, con indebolimento permanente dello stesso) per colpa consistita nella violazione dell’art. 29, comma 3, D. Lgs. n. 81 del 2008, avendo omesso di rielaborare un nuovo documento per la valutazione dei rischi (DVR) successivamente alla verificazione di due infortuni sul lavoro aventi modalità, dinamica e luogo di verificazione uguali a quello descritto ed accaduti qualche tempo prima.
L’imputato ricorreva in Cassazione adducendo che, tra gli altri motivi, la Corte d’Appello non aveva tenuto conto dei seguenti elementi:
a) la presenza di strisce adesive antiscivolo in buono stato di manutenzione, collocate a distanza tale da essere attinte dal piede al momento di passaggio; b) la mancata acquisizione di dati sullo stato delle strisce al momento della caduta; c) l’assenza di fotografie scattate immediatamente dopo la caduta; d) non era dimostrato come l’utilizzo delle calzature da lavoro avrebbe potuto evitare la caduta.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 13199 depositata il 7 aprile 2022, rigettava il ricorso.
Secondo la Corte, infatti, la colpa a carico del datore di lavoro era basata su:
- la mancata predisposizione di dispositivi antinfortunistici (calzature antiscivolo). L’esigenza di apposite scarpe è stata ricavata sulla scorta dell’esperienza derivante dai due pregressi analoghi infortuni verificatisi nel medesimo posto.
- la presenza di un tappetino antisdrucciolo logoro sul luogo del fatto, che aveva contribuito allo scivolamento a terra della persona offesa.
- l’omesso aggiornamento del DVR, doveroso a seguito dell’infortunio antecedente rispetto a quello oggetto del presente procedimento e l’omessa previsione nel DVR della necessità di rendere disponibili ed operativi i due semplici presidi antinfortunistici.
In materia di sicurezza sul lavoro, è fondamentale il principio secondo cui “ai sensi dell’art. 18, comma primo, lett. d), D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, il datore di lavoro deve fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale”.
Secondo la Corte, la Corte d’Appello ha fatto bene ad aver “sottolineato la rilevanza causale dell’omessa rielaborazione del DVR, dimostratosi in concreto inefficace, nonostante si fossero verificati già precedentemente due infortuni sul lavoro mediante modalità analoghe”.
Nel corso del procedimento emergeva che, sin dal primo evento infortunistico, i dispositivi di protezione si erano dimostrati inadeguati a fronteggiare il rischio di caduta da scivolamento e l’amministratore della società ometteva di predisporre nuove cautele, quali la sostituzione della pedana antisdrucciolo e la dotazione di calzature antinfortunistiche, che avrebbero scongiurato con ragionevole certezza la verificazione dell’evento subito dalla lavoratrice.
La Corte concludeva sostenendo che nel documento di valutazione dei rischi il datore di lavoro deve indicare in modo specifico “i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, in relazione alla singola lavorazione o all’ambiente di lavoro e le misure precauzionali ed i dispositivi adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori”.
Pertanto la Corte rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Molteplici violazioni in materia di sicurezza sul lavoro. Condizioni per l’esclusione della punibilità: particolare tenuità dell’offesa e non abitualità del comportamento.
Cassazione Penale, Sentenza n. 11992 del 1° aprile 2022.
MASSIMA:
“La valutazione di non punibilità si pone logicamente in un momento successivo rispetto all’accertamento del fatto di reato in tutti i suoi elementi costitutivi, per la cui giuridica esistenza è necessariamente richiesta la presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole e non anche l’assoggettamento, in concreto, alla sanzione penale di colui che lo ha commesso. Da ciò consegue che il tardivo adempimento alle prescrizioni dell’organo amministrativo è un post factum neutro rispetto al disvalore dell’illecito penale, anche in termini di offensività.”.
CONCETTO TRATTATO:
Al fine dell’esclusione della punibilità devono ricorrere, congiuntamente e non alternativamente, due condizioni: la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento.
COMMENTO:
Con una sentenza della Corte di Appello veniva confermata la sentenza di primo grado, in forza della quale un soggetto, in qualità di legale rappresentante di una società di costruzioni, era stato condannato alla pena, sospesa, di mesi quattro di arresto per più reati di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 in materia di sicurezza del lavoro.
Veniva allora proposto dall’imputato ricorso per Cassazione, secondo il quale nel giudizio di merito vi sarebbe stato un mancato riconoscimento della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., a norma del quale è esclusa la punibilità quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
Il ricorrente infatti sosteneva che la sentenza impugnata aveva escluso la non abitualità del fatto in considerazione del numero delle contravvenzioni contestate e della circostanza che esse erano state poste in essere nell’ambito di un’attività imprenditoriale; in più sarebbe stata omessa ogni valutazione sulle modalità della condotta nonché sull’esiguità del danno e del pericolo, e quindi non poteva dedursi l’abitualità del comportamento.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11992 depositata il 1° aprile 2022, rigettava il ricorso sostenendo che, per l’applicazione dell’art. 131 bis cod. pen. e quindi per escludere la punibilità, l’offesa deve essere di particolare tenuità e il comportamento deve risultare non abituale.
In relazione alla particolare tenuità del fatto, secondo la Corte, “è nozione ormai comune che sia necessaria una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado dì colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo”.
È richiesta, pertanto, una valutazione complessiva della condotta criminosa, correlata alla lesione potenziale del bene giuridico tutelato dalla norma penale, ossia la sicurezza sul lavoro, che prenda in esame tutte le particolarità della fattispecie concreta in termini di possibile disvalore.
Il Giudice deve verificare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice. Infatti, “il pericolo di offesa al bene giuridico sorge, potendo perciò ritenersi integrata la categoria penalistica del “pericolo”, quando, secondo un giudizio appunto ex ante e secondo le evidenze disponibili certificate dalla migliore scienza ed esperienza, appare probabile che, secondo l’id quod plerumque accidit, dalla condotta consegua l’evento lesivo che il legislatore, anticipando il momento della tutela, intende scongiurare”.
Nel caso di specie, anche se le condotte prese singolarmente potevano essere considerate “inoffensive”, le suddette ripetute condotte riscontrate integravano un disvalore tale da concretizzare la messa in pericolo della sicurezza sul lavoro, quale bene finale tutelato dalle norme incriminatrici.
In relazione all’abitualità del comportamento, non è esclusa la punibilità quando l’imputato abbia commesso più reati della stessa indole (ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio), poiché è lo stesso art. 131 bis cod. pen. a considerare il “fatto” nella sua molteplice dimensione.
Infatti, “è proprio, quindi, l’art. 131-bis, comma terzo, cit., che non consente di applicare in specie la causa di non punibilità, atteso che esso esclude, tra l’altro, di poter riconoscere tale causa in favore di chi abbia commesso più reati della stessa indole, anche nell’ipotesi in cui ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità”.
In pratica, non ha alcuna importanza l’eventuale particolare tenuità dei singoli segmenti in cui il fatto si articola, ma ciò che rileva è che esso, complessivamente considerato, sia connotato da una gravità tale da non poter essere considerato di particolare tenuità.
Nel caso di specie, l’imputato si era reso responsabile di plurime violazioni di norme riguardanti reati della stessa indole, in quanto lesivi del medesimo bene giuridico tutelato, ossia la sicurezza sul lavoro.
La Corte quindi rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Su chi incombe l’onere della prova del danno biologico subito dal lavoratore?
Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 7058 del 3 marzo 2022.
MASSIMA:
“Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”.
CONCETTO TRATTATO:
Nelle cause di risarcimento danni per infortuni sul lavoro o per malattie professionali, il dipendente deve dedurre e provare unicamente il nesso di causalità tra le mansioni svolte e la nocività dell’ambiente di lavoro.
COMMENTO:
Il caso riguarda la domanda di un lavoratore – occupato per oltre trent’anni come operatore di mezzi speciali (gruista, escavatorista, trattorista) – volta all’accertamento della responsabilità della società datrice di lavoro per i danni biologici, morali ed esistenziali da lui subiti nello svolgimento di mansioni usuranti (movimentazione dei carichi, esposizione a vibrazioni, posture incongrue, eventi climatici) in assenza di adeguate misure preventive.
Mentre nel giudizio di primo grado la domanda veniva accolta e la società veniva condannata al risarcimento del danno, la Corte d’Appello riformava la sentenza, in quanto “il lavoratore non aveva fornito […] prova sufficiente, il cui onere era su di lui ricadente, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno”.
Il lavoratore ricorreva in Cassazione sostenendo, tra gli altri motivi, che la Corte d’Appello avrebbe errato nell’addossare al lavoratore l’onere di provare l’omissione da parte del datore di predisporre le misure di sicurezza (suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica) necessarie ad evitare il danno a fronte della prova fornita dal lavoratore sulla esistenza delle patologie, sulla nocività dell’ambiente di lavoro e sul loro rapporto causale e sulle specifiche norme violate dal datore di lavoro.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 7058 depositata il 3 marzo 2022, accoglieva il ricorso, in quanto riteneva che la Corte d’Appello avesse errato nel porre a carico del lavoratore la dimostrazione della violazione da parte del datore di lavoro di specifiche misure antinfortunistiche – anche innominate – “laddove il lavoratore era tenuto solo a dimostrare il nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell’ambiente di lavoro restando a carico del datore di lavoro la prova di avere adottato tutte le misure (anche quelle cd. innominate) esigibili in concreto”.
La Corte di cassazione, sulla scorta del consolidato orientamento di legittimità, ribadiva che l’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, per cui il datore di lavoro risulta diligente e adempiente nel caso in cui abbia predisposto le misure idonee secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica.
Infatti, in sentenza si legge che :”Secondo la condivisibile e consolidata giurisprudenza di questa Corte infatti l’art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento”.
Da ciò consegue che il lavoratore deve dimostrare l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale. Se il lavoratore fornisce tale prova “sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”.
Nel caso di specie, il lavoratore aveva fornito tale prova e, quindi, sussisteva per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno; per questo motivo, la Cassazione cassava la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello per il riesame del materiale istruttorio e degli esiti della prova, orale e documentale.
Le mansioni usuranti possono provocare la malattia professionale del lavoratore.
Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 10115 del 29 marzo 2022.
MASSIMA:
“L’art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o
tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute,l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”.
CONCETTO TRATTATO:
Il lavoratore che agisce per ottenere il risarcimento dei danni causati dall’espletamento dell’attività lavorativa non ha l’onere di dimostrare le specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza.
COMMENTO:
Gli eredi di un lavoratore ricorrevano giudizialmente al fine di ottenere la declaratoria di responsabilità della società datrice di lavoro nella causazione dei danni provocati al lavoratore deceduto per essere stato addetto all’esecuzione di mansioni usuranti, all’esposizione a vibrazioni ed a posture incongrue.
La Corte d’Appello rigettava la domanda, sostenendo che i ricorrenti non avevano fornito prova sufficiente circa la sussistenza delle specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle necessarie misure di sicurezza.
Gli eredi del lavoratore ricorrevano allora in Cassazione, sostenendo che, tra gli altri motivi, la Corte d’Appello avesse erroneamente addossato al lavoratore l’onere di provare l’omissione da parte del datore di lavoro di predisporre le misure di sicurezza (suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica) necessarie ad evitare il danno e, inoltre, aveva accertato l’insussistenza del nesso causale.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 10115 depositata il 29 marzo 2022, accoglieva il ricorso degli eredi del lavoratore.
In corso di causa, veniva accertato che il dipendente aveva svolto mansioni di operaio addetto ai lavori di squadra ed operatore di mezzi speciali, occupandosi di mansioni attinenti alla costruzione ed alla manutenzione della filiera di elettrificazione, a sua volta richiedente, tra l’altro, lo svolgimento di attività di defrascamento e taglio alberi, scavo e palificazione, tutte lavorazioni pacificamente classificabili come mansioni usuranti.
La Cassazione – ribaltando quanto stabilito dalla Corte d’Appello – rilevava che l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
“Il richiamato passaggio argomentativo in punto dei criteri di ripartizione della prova è frutto di un errore di diritto del giudice di appello in quanto prescinde dai principi, pur correttamente evocati in sentenza, in tema di distribuzione dell’onere della prova, finendo con il porre a carico del lavoratore la dimostrazione della violazione da parte del datore di lavoro di specifiche misure antinfortunistiche – anche innominate- laddove il lavoratore era tenuto solo a dimostrare il nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell’ambiente di lavoro restando a carico del datore di lavoro la prova di avere adottato tutte le misure (anche quelle cd. innominate) esigibili in concreto”.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva ritenuto che fosse onere del lavoratore dimostrare la sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica necessaria ad evitare il danno.
Ne consegue che sarebbe a carico del dipendente che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza del danno stesso, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra i due elementi.
Invece, secondo la Corte di Cassazione, il lavoratore era tenuto solo a dimostrare il nesso di causalità tra le mansioni espletate – e dedotte come mansioni usuranti – e la nocività dell’ambiente di lavoro.
Pertanto, la Corte cassava la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’Appello per il riesame del materiale istruttorio e degli esiti della prova, orale e documentale, alla luce del corretto criterio di ripartizione degli oneri probatori.