Cassazione Civile, Sezione Lavoro, ordinanza n. 22161 del 6 agosto 2024.
MASSIMA:
“Anche in assenza dell’intento mobbizzante privare il lavoratore dei propri compiti o farlo vivere in un ambiente di perenne conflittualità può determinare la malattia, cioè il danno che il datore deve risarcire.”.
CONCETTO TRATTATO:
Vi è una responsabilità del datore di lavoro per i danni da stress lavoro-correlato per l’inattività imposta al dipendente
COMMENTO:
Il comportamento del datore di lavoro, che lasci il dipendente in una condizione di inattività forzata e isolamento lavorativo, può determinare un pregiudizio sulla vita professionale e personale dell’interessato, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa.
La Corte di cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza n. 22161 depositata il 6 agosto 2024, accoglieva il ricorso di una dipendente pubblica che a partire da un dato ordine di servizio del Comune-datore di lavoro si era ritrovata di fatto per due anni senza alcuna attività da svolgere. La lavoratrice aveva dopo poco ricevuto la diagnosi di stato ansionso-depressivo e il giudice di primo grado, adito circa dopo due anni dalla prima diagnosi, aveva stabilito oltre 10mila euro di risarcimento del danno da stress lavoro-correlato a carico dell’ente locale.
L’ente ricorreva in appello, ottenendo il ribaltamento della decisione di primo grado in quanto veniva disconosciuto il nesso tra patologia denunciata e la condizione della donna sul luogo di lavoro. Infatti, era stato accolto il motivo di impugnazione con cui il Comune riteneva errata la conclusione del giudice di primo grado, secondo cui non poteva far risalire la causa della malattia psichica all’inattività e alla conflittualità ambientale.
La lavoratrice ricorreva in Cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello, dopo aver accertato una situazione di forzata inattività (mobbing), non aveva dato alcuna rilevanza al mancato assolvimento da parte del Comune della prova di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia della dipendente non era ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi: la Corte territoriale non aveva valutato ai fini della prova del danno e del nesso di causalità le condizioni di lavoro e dell’ambiente lavorativo che la ricorrente era stata costretta a subire per oltre due anni, ambiente insalubre e privo di ogni norma di sicurezza e che le aveva causato un infortunio sul lavoro
Secondo la Corte, non vi era dubbio che da parte dell’Amministrazione ci fosse stato un comportamento che aveva violato l’art. 2087 cod. civ., norma che postula la rilevanza di quei doveri del datore di lavoro nei confronti dei suoi subordinati che vanno oltre il mero rispetto delle norme di sicurezza prescritte esplicitamente, essendo estesi all’obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato.
“Ed infatti il comportamento del datore di lavoro che lasci in condizione di forzata inattività il dipendente, pur se non caratterizzato da uno specifico intento persecutorio ed anche in mancanza di conseguenze sulla retribuzione, può determinare un pregiudizio sulla vita professionale e personale dell’interessato, suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa”.
L’art. 2087 cod. civ. è fonte di un obbligo in base al quale è compito del datore di lavoro la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004…”. Accordo sottoscritto dalle parti sociali a livello comunitario sullo “stress da lavoro”, definito come uno “stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali” che, in caso di “esposizione prolungata”, può “causare problemi di salute” (par. 3) e che, pertanto, investe la “responsabilità dei datori di lavoro… obbligati per legge a tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori”.
In secondo luogo, la Cassazione accoglieva il ricorso in quanto il giudice di appello avrebbe dovuto affidarsi a una consulenza tecnica per poter ribaltare la sentenza di primo grado e affermava che non è solo l’insorgenza ma anche l’aggravamento di uno stato patologico a poter essere fonte di danno per stress lavoro-correlato.
Infatti, secondo la Corte, “il giudice, allorquando non abbia le cognizioni tecnico-scientifiche necessarie ed idonee a ricostruire e comprendere la fattispecie concreta in esame nella sua meccanicistica determinazione ed evoluzione, pur essendo peritus peritorum deve fare invero ricorso a una consulenza tecnica di tipo percipiente, quale fonte oggettiva di prova (…), sulla base delle cui risultanze è tenuto a dare atto dei risultati conseguiti e di quelli viceversa non conseguiti o non conseguibili, in ogni caso argomentando su basi tecnico-scientifiche e logiche”.
Nella sentenza impugnata non vi era stata alcuna precisa valutazione di diagnosi a confronto né alcuna indicazione di quale sarebbe stata la causa della malattia diversa dall’ambiente di lavoro, né vi era stata alcuna considerazione, eventualmente sulla base di un supplemento di consulenza tecnica, di quanto la condizione lavorativa potesse avere eventualmente inciso su un pur pregresso stato patologico.
Pertanto, la Corte accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviava, anche per le spese, alla Corte d’Appello in diversa composizione.